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Le domande ricorrenti



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Achilles osteoporosi
Invecchiamento e alterazioni della composizione corporea
L’invecchiamento comporta un’alterazione della composizione corporea: si riducono i muscoli, la cosiddetta massa magra, e aumenta il grasso o massa grassa. Il rapporto massa magra/massa grassa, quindi, si modifica sfavorevolmente, ma il processo si può contrastare con una sana alimentazione e con l’attività fisica. Per monitorare nel tempo le alterazioni della composizione corporea possiamo usare tre semplici metodi: – indice di massa corporea – circonferenza addominale – bioimpedenziometria. Indice di massa corporea (BMI) L’indice di massa corporea, o Body Mass Index (BMI), determina se il peso corporeo è eccessivo rispetto all’altezza. A seconda del risultato si può definire se un soggetto è normopeso (BMI fra 18,5 e 24,9), sovrappeso (BMI fra 25 e 29,9) o obeso (BMI uguale o maggiore a 30). Circonferenza addominale La circonferenza addominale serve a determinare la quantità di grasso viscerale, quella più pericolosa, misurando la circonferenza dell’addome all’altezza delle creste iliache. I valori patologici sono, nell’uomo, uguali o superiori a 102 cm e, nelle donne, uguali o superiori a 88 cm. La bioimpedenziometria, invece, consente di valutare la massa grassa tramite elettrodi da porre nelle mani e sotto i piedi: una corrente elettrica a bassissimo voltaggio attraversa il corpo e misura la quantità di grasso in percentuale rispetto al peso. Cos’ è l’osteoporosi? L’osteoporosi è una malattia che interessa tutto lo scheletro ed è caratterizzata dalla ridotta massa ossea e da alterazioni che si accompagnano ad aumento del rischio di frattura. Questa malattia può essere secondaria ad altre patologie oppure presentarsi con la menopausa o con l’età avanzata. Tra i più diffusi fattori di rischio ricordiamo menopausa prematura, età, amenorrea, ipogonadismo, bassa densità ossea, familiarità, malattie neuromuscolari, fumo, eccessivo consumo di alcolici, sedentarietà, basso apporto di calcio, carenza di vitamina D. Come diagnosticare l’osteoporosi? La prevenzione e la diagnosi precoce dell’osteoporosi sono fondamentali per evitare fratture del femore e delle vertebre. La diagnosi di osteoporosi si basa sulla visita del medico e sulla valutazione delle condizioni dell’osso tramite esami strumentali definiti genericamente densitometria ossea (o MOC). La tecnica di riferimento più diffusa è la densitometria ossea a doppio raggio X (DXA), che viene di solito eseguito a livello delle vertebre lombari prima dei 65 anni. Cos’è l’esame Achilles? L’esame Achilles coinvolge il calcagno, che è il miglior sito periferico per l’ultrasonografia: è di facile accesso, presenta un elevato contenuto d’osso trasecolare, ha una funzione di supporto come la colonna vertebrale e il femore. L’esame dura meno di un minuto, non emette radiazioni ed è totalmente innocuo. Sul calcagno del piede destro e sulle membrane dell’apparecchio si spruzza dell’alcol; le membrane dell’apparecchio, che durante la misurazione si rigonfiano con acqua riscaldata, si modellano intorno al piede per meglio avvolgere il calcagno. Achilles è utile per la diagnosi precoce dell’osteoporosi, consentendo di attuare una terapia basata sullo stile di vita e sull’eventuale integrazione con vitamina D e calcio. L’esame è preciso nel monitoraggio delle variazioni ossee dovute all’età ma anche alla risposta alla terapia con i farmaci. Cos’è Achilles InSight? Achilles InSight è un innovativo apparecchio medicale che, attraverso gli ultrasuoni, permette di diagnosticare precocemente il rischio di frattura da osteoporosi. L’esame è innocuo, indolore e dura solo 15 secondi. In particolare l’ultrasonografia con Achilles ha dimostrato la capacità di stimare il rischio di fratture femorali e vertebrali con accuratezza superiore alla DXA. L’Indice di Stiffness fornito da Achilles è il parametro più sensibile per la valutazione del rischio di fratture vertebrali.

Colesterolo
Che cosa sono il colesterolo e i trigliceridi? Il colesterolo e i trigliceridi sono due tipi di grassi normalmente presenti nel sangue. Il colesterolo è un importante costituente delle cellule e partecipa alla formazione di alcuni ormoni che controllano le funzioni del nostro organismo; è prodotto in parte nel fegato e in parte è assorbito con l’alimentazione. Elevati livelli di colesterolo nel sangue causano l’aterosclerosi, una malattia caratterizzata dalla formazione di placche nelle arterie che ostacolano gravemente il flusso sanguigno, causando infarto cardiaco e ictus. E’ vero che esiste un colesterolo “buono” e un colesterolo “cattivo”? Si, è vero. Esiste un colesterolo “cattivo”, detto LDL, che danneggia le arterie, e un colesterolo “buono”, detto HDL, che le protegge. Le placche nelle arterie si possono formare quando il “colesterolo buono” è basso o quando il “colesterolo cattivo” è alto: per avere un quadro preciso delle proprie condizioni, è sufficiente eseguire un prelievo di sangue. Chi ha il colesterolo elevato presenta disturbi particolari? Purtroppo chi ha il colesterolo elevato non presenta di solito sintomi precisi: per questo sono consigliati controlli periodici. Nei soggetti senza particolari fattori di rischio occorre fare un prelievo del sangue e dosare il colesterolo totale, l’HDL e i trigliceridi almeno ogni cinque anni. Se, invece, sono presenti fattori di rischio o si riscontrano valori elevati, é opportuno eseguire controlli più frequenti. Cosa fare per ridurre il colesterolo senza ricorrere ai farmaci? Una buona dieta a base frutta, la verdura, i legumi, il pesce, la carne magra, pasta e pane senza grassi aggiunti riduce sensibilmente i livelli di colesterolo cattivo. Sono sconsigliati, invece, salumi, formaggi, latte, burro, tuorlo d’uovo (non più di due la settimana), dolci e tutti gli alimenti preparati con grassi animali. Latte scremato e yogurt magro si possono consumare in quantità moderate. Da evitare inoltre il fumo, l’eccesso di alcolici e la sedentarietà, spesso collegata a sovrappeso e obesità.

Diagnosi precoce AAFP
La prevenzione e la diagnosi precoce rappresentano fra le più grandi conquiste della medicina moderna. Esistono numerose organizzazioni che hanno formulato una serie di raccomandazioni sulle malattie da prevenire o diagnosticare precocemente; fra quelle più autorevoli ricordiamo l’American Academy of Family Pysicians (AAFP), le cui raccomandazioni sono aggiornate in base alle ricerche dell’ente United States Preventive Services Task Force (USPSTF). Le raccomandazioni della AAFP possono avere grado A (l’associazione raccomanda la procedura per il significativo beneficio che comporta) e grado B (l’associazione raccomanda la procedura, ma è probabile che il beneficio sia solo moderato).

Dieta GIFT
La dieta GIFT in realtà non è una dieta, ma una sana alimentazione che invia i segnali giusti al nostro organismo. GIFT in inglese significa “dono”: l’alimentazione corretta è un regalo unico, la premessa per la salute e per l’equilibrio fisico e mentale. Il cibo è anche gioia di vivere, un piacere da condividere con i nostri cari. Ogni lettera della parola GIFT ha un importante significato: G = Gradualità I = Individualità F = Flessibilità T = Tono Gradualità Chi perde troppi chili di peso in poco tempo può esporsi a diversi effetti negativi sulla propria salute, senza contare che, spesso, gli effetti sulla perdita di peso sono temporanei. Bisogna acquisire una nuova coscienza alimentare, da applicare gradualmente nella vita di tutti i giorni per ottenere risultati stabili migliorando la salute e il benessere generale. Individualità Ogni persona ha caratteristiche biologiche e psicologiche uniche: applicare la stessa dieta a individui diversi non può che sortire effetti variabili e, spesso, deludenti. L’unica alimentazione che sia possibile seguire negli anni è quella che consente a ogni singolo individuo di soddisfare i propri desideri, senza eccessive restrizioni, nell’ambito della ragionevolezza. Ecco perché la dieta GIFT si basa su un approccio personalizzato. Flessibilità Uno dei grandi limiti delle diete più famose consiste nella loro “rigidità”: non è semplice seguire una dieta, ad esempio, quando si basa su rigidi rapporti fra proteine, carboidrati e grassi o sulle ripartizioni di questi nei vari pasti. Inoltre, un corretto stile alimentare deve prendere in considerazione anche i pasti consumati al ristorante o al bar e l’attività lavorativa svolta. La dieta GIFT è contraria all’uso della bilancia per pesare gli alimenti o all’ossessivo conteggio delle calorie, ma propone una valutazione visiva delle porzioni alimentari e incoraggia il consumo libero di alcuni alimenti. Tono La dieta GIFT promuove un aumento del consumo calorico piuttosto che una strenua riduzione delle calorie ingerite. Aumentare il tono muscolare e, quindi, la massa magra, facilita il compito. Potenziare il metabolismo significa mangiare secondo alcune regole ben precise, che inviano particolari segnali al nostro organismo. L’attività fisica è una componente fondamentale della dieta GIFT, perché promuove il consumo calorico e l’incremento della massa muscolare.

Età delle arterie (CAVI e ABI)
L’esame delle arterie con CAVI e ABI è innocuo, indolore e di breve durata, valuta la rigidità delle arterie ed eventuali ostruzioni arteriose degli arti inferiori. Misura inoltre le pressioni arteriose degli arti, i suoni cardiaci, e l’attività elettrica del cuore. Le malattie cardiovascolari Rudolf Virchow, illustre medico tedesco, sosteneva nel 1800 che “l’uomo ha l’età delle sue arterie”: niente di più vero! Le malattie cardiovascolari, fra cui ictus cerebrale e infarto cardiaco, rappresentano la prima causa di morte, superando ampiamente ogni tipo di tumore. Nonostante questo, dal 1970 al 2000 l’aspettativa di vita è aumentata di circa cinque anni, soprattutto grazie alle innovative cure per le malattie cardiovascolari. I risultati terapeutici sono tanto più efficaci quanto più la diagnosi è precoce, individuando già nelle prime fasi la presenza degli accumuli di grasso nelle pareti delle arterie: la cosiddetta aterosclerosi. La rigidità delle arterie Nella fase di sistole, cioè di contrazione, il cuore invia il sangue nelle arterie, che si dilatano con l’aumentare della pressione. Nella fase di diastole, cioè di riempimento del cuore, le arterie si restringono e spingono il sangue a valle, generando un flusso sanguigno continuo. Se le arterie diventano rigide a causa dell’aterosclerosi manca la fase di dilatazione-restringimento delle pareti e il sangue scorre molto più velocemente, come se fosse all’interno di un tubo indeformabile. Il CAVI o indice cuore-caviglia Il CAVI (Cardio Ankle Vascular Index), o indice vascolare caviglia-braccio, misura il tempo impiegato dal sangue per raggiungere le caviglie partendo dal cuore e quindi la velocità di progressione del sangue nel sistema arterioso. Questo parametro è utile per valutare la rigidità arteriosa, segno precoce di sofferenza delle arterie. L’esame è totalmente innocuo e indolore e di breve durata. L’ABI o indice caviglia-braccio L’ABI (Ankle Brachial Index), o indice caviglia-braccio, si basa sulla misurazione della pressione arteriosa massima delle caviglie e delle braccia, possibilmente in modo simultaneo. Nei soggetti sani la pressione arteriosa sistolica della caviglia è maggiore di quella del braccio, quindi il rapporto fra queste due pressioni è superiore all’unità. Se l’ABI è inferiore a 0,9 dobbiamo ipotizzare un restringimento aterosclerotico a carico di una o più arterie che portano sangue agli arti inferiori. Inoltre l’ABI è un indice di rischio per ictus e infarto cardiaco: più è basso il valore e più aumenta il rischio.

Linee guida sull'infarto cardiaco
L’infarto cardiaco: la vecchia definizione OMS L’infarto cardiaco è una delle principali cause di morte nei paesi industrializzati. I “vecchi” cardiologi come me hanno visitato e curato migliaia di pazienti con infarto cardiaco acuto, e il nostro primo obiettivo è sempre stato quello di eseguire una corretta diagnosi. In passato i criteri fondamentali erano tre: • il dolore toracico • le alterazioni elettrocardiografiche • le alterazioni dei markers di necrosi cardiaca (CPK, LDH, AST) Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) erano sufficienti due criteri dei precedenti per la diagnosi di infarto cardiaco, ma la medicina evolve velocemente. La scoperta di nuovi markers ematici e l’uso di strumentazioni sofisticate ha modificato i criteri diagnostici per l’infarto cardiaco, che può essere spontaneo o causato da procedure mediche. Infarto cardiaco e biomarcatori (biomarkers) L’infarto cardiaco è definito come la morte (necrosi) di una parte del cuore a causa di un ridotto apporto di sangue (ischemia) per un tempo prolungato, almeno 2 – 4 ore. La necrosi cardiaca può essere evidenziata rilevando nel sangue alcune sostanze dette biomarkers (biomarcatori). In passato era molto utilizzata la frazione cardiaca della creatinfosfochinasi (CK), un enzima presente nel muscolo cardiaco, sostituita negli ultimi anni dalle più sensibili troponine cardiache (TnI e TnT), presenti quasi esclusivamente nell’apparato contrattile del cuore. Per diagnosticare l’infarto cardiaco occorre determinare un aumento e/o una discesa della concentrazione delle troponine, la cosiddetta curva. In altre parole durante l’infarto la troponina aumenta progressivamente nel sangue fino a un picco, per poi ridiscendere. Occorre osservare almeno una parte di questa curva, ad esempio la discesa, per parlare di infarto cardiaco. Infarto cardiaco e sintomi Le sedi del dolore da infarto cardiaco sono tipicamente: -torace -arti superiori (soprattutto il sinistro) – giugulo – epigastrio (porzione addominale sotto lo sterno) Esistono anche i cosiddetti equivalenti anginosi, cioè sintomi diversi dal dolore toracico causati dall’infarto cardiaco: – dispnea (mancanza di fiato) – fatica o debolezza importante Sia il dolore toracico sia gli equivalenti anginosi devono durare oltre 20 minuti per poter sospettare un infarto cardiaco.

Osteonecrosi della mandibola e bifosfonati
L’osteoporosi è una malattia delle ossa caratterizzata dall’aumentato rischio di fratture, soprattutto a carico delle vertebre e del femore. E’ una patologia molto diffusa che colpisce in particolar modo le donne dopo la menopausa e i soggetti che assumono corticosteroidi per periodi prolungati. I bifosfonati sono i farmaci più efficaci nel ridurre le fratture in tali pazienti: il loro meccanismo d’azione consiste nell’inibire il riassorbimento osseo operato dalle cellule chiamate osteoclasti. Un possibile effetto collaterale raro, ma potenzialmente pericoloso, è l’osteonecrosi della mascella/mandibola. Cos’è l’osteonecrosi della mandibola? L’osteonecrosi della mascella/mandibola è una rara patologia ossea infettiva e necrotizzante, con tendenza al progressivo peggioramento. Questa malattia è compare a volte a causa della terapia con bifosfonati, soprattutto in pazienti con artrite reumatoide e in caso di operazioni ai denti. L’osteonecrosi della mandibola si manifesta con esposizione di osso non vitale (necrotico) della mandibola/mascella e dolore, difficoltà a deglutire, alitosi e alterazioni della sensibilità cutanea. Quali sono i sintomi e che cure si possono intraprendere? La sintomatologia dolorosa può essere molto intensa, spesso resistente agli antidolorifici. Possono essere presenti anche alterazioni della sensibilità cutanea, contrattura spastica dei muscoli della mandibola, fistole fra gengiva e pelle, ascessi e tumefazioni del tessuto. Radiografie endorali e panoramiche dentali possono evidenziare le aree di distruzione ossea; anche la TAC e la risonanza magnetica possono diagnosticare e valutare la severità della malattia. Le cure possibili comprendono collutori con antimicrobici, terapia antibiotica per via orale o parenterale, antifungini a livello delle lesioni o per bocca, sospensione della terapia con bifosfonati. La chirurgia, data la difficile guarigione dell’osso colpito, è riservata agli stadi più avanzati. Si può prevenire l’osteonecrosi della mandibola? Per evitare l’insorgenza di questa malattia è necessario adottare tutte le misure di prevenzione ad oggi note. Le raccomandazioni del Ministero della Salute sono distinte per tipologie di pazienti: 1) Pazienti che devono iniziare il trattamento con bifosfonati. Prima di iniziare il trattamento con bifosfonati è consigliata una visita odontoiatrica per valutare le condizioni del cavo orale e intraprendere un programma di prevenzione ed eventuale trattamento di patologie dentali. In caso fossero necessari interventi chirurgici endorali si consiglia di rimandare la terapia con bifosfonati di almeno un mese e comunque non prima della completa guarigione. 2) Pazienti asintomatici in trattamento con bifosfonati. In questa fase è fondamentale che l’odontoiatra studi attentamente le condizioni di salute orale e segnali eventuali lesioni ossee o della mucosa. In caso di interventi indispensabili, l’odontoiatra deve valutare il rischio di osteonecrosi, adottare protocolli terapeutici con appropriato impiego di antibiotici, minimizzare il trauma locale ed effettuare un accurato monitoraggio postoperatorio periodico. 3) Pazienti asintomatici in trattamento con bifosfonati. In presenza di sintomi di osteonecrosi della mandibola l’odontoiatra imposterà una eventuale terapia antibiotica e frequenti controlli clinici. I reumatologi controllare gli eventuali sintomi di osteonecrosi della mandibola da bifosfonati soprattutto nei pazienti con artrite reumatoide e richiedere, se indicata, consulenza odontoiatrica.

Prolasso mitralico
Cos’è il prolasso mitralico? Il prolasso mitralico è un’alterazione caratterizzata dallo spostamento eccessivo in atrio sinistro da parte di uno o di entrambi i lembi mitralici durante la sistole. I lembi mitralici risultani ispessiti e anche le corde tendinee possono essere allungate. – Quali sono le cause? Le cause sono sconosciute, ma sembra essere presente una forte componente ereditaria. Il prolasso mitralico è spesso associato ad alcune malattie del tessuto connettivo (sindrome di Marfan, osteogenesi imperfecta, sindrome di Ehler-Danlos) o ad alterazioni del torace e della colonna vertebrale (pectus excavatum, sindrome della schiena dritta). – Quali sono i sintomi? La maggior parte dei pazienti è asintomatica, ma uno dei sintomi principali è un “fastidio” toracico atipico, diverso dal dolore dell’angina o dell’infarto. Altri sintomi frequenti sono le palpitazioni e gli svenimenti, spesso causati da aritmie tipo tachicardia parossistica sopraventricolare, tachicardia ventricolare, fibrillazione atriale. Nei casi associati a severa insufficienza mitralica può comparire la dispnea. – Qual è il decorso clinico? Il prolasso valvolare mitralico è più frequente nelle donne e il decorso è di solito benigno. Solo in rari casi l’alterazione valvolare può aggravarsi o virare verso forme gravi, da trattare chirurgicamente, ad esempio in seguito ad endocardite batterica. – Esame obiettivo Il prolasso valvolare mitralico può essere diagnosticato casualmente durante un ecocardiogramma eseguito per altri motivi. In altri casi il sospetto clinico nasce dall’auscultazione del cuore: spesso è possibile rilevare un rumore cardiaco, detto “click”, nella fase intermedia o finale della sistole, generato dall’improvviso prolasso dei lembi o dall’allungamento delle corde tendinee. – Esami strumentali L’esame fondamentale per diagnosticare il prolasso mitralico è l’eccardiogramma. Spesso è utile un ECG-Dinamico secondo Holter per lo studio delle aritmie nei pazienti che presentano frequenti palpitazioni. – Terapia Le nuove linee guida consigliano la profilassi educazionale dell’endocardite infettiva, che consiste nello spiegare al paziente i sintomi della malattia e come eseguire una corretta igiene dentale personale. Per ridurre le palpitazioni e il dolore toracico possono essere utili i betabloccanti; in caso di insufficienza mitralica severa, invece, si valuterà l’intervento di plastica mitralica. L’aspirina o la terapia anticoagulante sono consigliati in presenza di precedenti attacchi ischemici transitori.

Tachicardia parossistica sopraventricolare: cause e rimedi
Il dott. Carlo Maggio a Diario Salute Tv: "Non è una patologia di cui aver paura. Nella maggior parte dei casi può essere trattata facilmente". Guarda il video.
La tachicardia parossistica sopraventricolare è un’aritmia del cuore. Un disturbo del battito cardiaco caratterizzato da un battito particolarmente elevato del cuore. Il normale ritmo viene detto «sinusale» perché origina da una parte del cuore chiamata nodo del seno atriale. La tachicardia parossistica rientra in una serie di aritmie in cui il cuore ha un ritmo accelerato.
Tachicardia parossistica sopraventricolare, le cause
La tachicardia parossistica sopraventricolare è legata generalmente a disturbi della conduzione elettrica del cuore. Il nostro cuore, infatti, si contrae grazie a degli eventi elettrici e possiede un determinato ritmo. Questo genere di tachicardia viene chiamata parossistica perché ha una durata limitata nel tempo. Può quindi essere mandata via attraverso l’utilizzo di specifiche manovre vagali come per esempio quella di Valsava, in cui viene esercitata una determinata pressione a livello addominale.
I farmaci betabloccanti e la tachicardia parossistica sopraventricolare
Se da un lato il battito cardiaco eccessivo che si attesta intorno ai 180-200 battiti al minuto può far spaventare, dall’altro è bene dire che si tratta di un disturbo facilmente curabile. Si possono utilizzare, allo scopo, farmaci beta bloccanti: sostanze che rallentano il battito cardiaco impedendo l’insorgenza della tachicardia.
La diagnosi della tachicardia parossistica sopraventricolare
Se siamo fortunati, nel momento in cui insorge si esegue un elettrocardiogramma (ECG) che è una registrazione dell’attività elettrica del cuore a riposo. Altre volte bisogna ricorrere a registrazioni prolungate dell’attività elettrica del cuore utilizzando un Holter. Si appongono degli elettrodi sul torace e un’apposita macchinetta effettua delle registrazioni durante l’arco della giornata. Infine, la tachicardia parossistica sopraventricolare non è una patologia di cui aver paura e nella maggior parte dei casi può essere facilmente trattata.
 


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